L’opera realizzata da Giancarlo Ossola (Milano 1935 - ivi 2015) nel 1991 appartiene alla notevole serie dedicata dall’artista al mondo delle fabbriche, tematica molto importante nella sua poetica. Come scrive Antonello Negri nella prefazione alla mostra personale dell’artista tenutasi presso la galleria Appiani Arte32 nel settembre del 1994, nelle fabbriche di Ossola “non può più lavorare nessuno: il che, per certi aspetti, colloca i suoi lavori su una lunghezza d’onda simile a quella di altri artisti contemporanei che si sono cimentati con un tema analogo. Per esempio i tedeschi Hans e Hilla Becher che con un altro mezzo, la fotografia, hanno rappresentato, ma per lo più in vedute esterne, fabbriche, officine, pozzi minerari. Anche nei lavori di questi ultimi l’uomo non c’è e l’industria è sentita come esemplare di una fine o di una mancanza, ma anche – e non sottovalutiamo questo aspetto – di un desiderio”. Ossola osserva questi luoghi dall’interno, raccontandoli sul filo di una memoria che si intreccia all’immaginazione, creando vedute contemporanee che aprono nuove possibilità al genere della pittura di paesaggio tradizionale. Egli è stato, del resto, uno dei primi artisti a portare l’attenzione, fin dagli anni Settanta, sulle aree industriali e urbane italiane. Formatosi a Brera e alla Scuola Comunale di Pittura del Castello, Ossola mostra subito una particolare attrazione per la pittura figurativa, propensione che si definisce ulteriormente con la frequentazione degli artisti del Realismo Esistenziale e con la conoscenza dell’area espressionista della pittura europea. Da allora Ossola non ha smesso di essere uno degli artisti più interessanti della scena milanese contemporanea. Nel 2016 la città di Milano ha riconosciuto il suo ruolo da protagonista iscrivendo il suo nome nel Famedio del Cimitero Monumentale.
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